Lo scandalo della modernità, “La casa di cartone”
di Francesco Greco - Non c’è stazione ferroviaria, di metropoli o città di provincia, in cui non vediamo aggirarsi fantasmi di persone spinte da oscuri fantasmi ai margini del contesto civile. Li riconosci da come vestono, anzi, da come si coprono. Stanno lì tutto il tempo, perché non saprebbero dove altro andare. Si trascinano dietro shopper di plastica che contengono le loro povere cose, spesso vecchi carrelli da supermercato.Alla Stazione Termini a Roma di recente abbiamo visto una bellissima nera girare scalza e sporca alle 6 del mattino. Stessa ora: un vecchio con bellissimi occhi blu si aggira sorridendo per via Marsala calzando buste di plastica. A Venezia una ragazzina con l’aria da zingara chiedeva qualche spicciolo accoccolata su una stuoia di cartone. Alla stazione di Molfetta, un tale con le scarpe da tennis e vestiti sgualciti sta tutto il tempo alla stazione osservando i passeggeri. In quella di Bologna gira una vecchia con un vecchio trolley carico di carabattole. A Cambridge i barboni recitano Shakespeare: Dio parla l’inglese.
Se hanno coraggio, chiedono l’elemosina di qualche spicciolo per mettersi qualcosa nello stomaco. A volte si sentono rispondere: “Vattene, non sto tanto meglio di te” (Cinzia Bomoll, “Tomba cercasi a tempo determinato” (…) “o muori e avrai una tomba tua o vattene da qui!”… “solo da morto avrai diritto al tuo loculo”). Altre volte la Polizia li scaccia: “Vai alla Caritas, non qui che rovini il decoro urbano”, ma anche lì “c’è la fila di gente nomale che si frega il mangiare anche di quelli che non hanno nulla“ (idem).
L’universo dei senza fissa dimora ci corre accanto, ma noi facciamo finta che non esiste. Ha le sue regole non scritte, rigorose, proprio come il mondo “normale”. I media se ne accorgono solo quando scorre il sangue o il gelo uccide un homeless. Taglio sociologico, il più comodo: niente analisi politiche, si farebbero conclusioni inattese, sorprendenti. La politica li ignora, per le istituzioni non esistono. E’ gente che cerca solo qualche giornalista alle prime armi per un pezzo di colore.
Insomma: nessuno “vuole fare i conti con una società che centrifuga usando la tecnologia non al servizio dell’uomo, ma contro l’uomo” (“Giù, sui fondali”, Vittorio Catani). Eppure un recente sondaggio, in appena 158 dei Comuni d’Italia (degli oltre 8.000), ha censito 50mila senza fissa dimora. Quanto una città di provincia. Di ogni fascia d’età, estrazione sociale, provenienza etnica. Fra poco cadrà la loro festa: il 17 ottobre, che l’Onu ha dichiarato “Giornata mondiale del rifiuto della miseria”.
Ci vuol poco a finire per strada. E può accadete a tutti, nessuno escluso. Una morte improvvisa, un lutto non elaborato, un matrimonio fallito, un licenziamento a una certa età, uno sfratto (da noi 1/6 delle case è sfitto, ma nessuno mena scandalo). Sulla strada trovi maestri di scuola, imprenditori divorati dalle banche e dalla criminalità, extracomunitari arrivati in cerca dell’Eldorado, della “Merica” e sospinti ai margini del tessuto sociale, alcolizzati, tossici, esodati rimasti senza reddito né pensione, disoccupati cronici, gente che un giorno ha perso la password e si è chiamata fuori.
A indagare questo pianeta misterioso, “oscuro e poco conosciuto”, che ha una sua visione del mondo e racconta storie molto istruttive se solo ci fermassimo ad ascoltarle uscendo dai mulinelli vorticosi della modernità per qualche istante, giunge in libreria “La casa di cartone” (AA. VV.), a cura di Girolamo Grammatico (Erice, 1978, sua la dotta prefazione, lavora dal 2001 con i barboni, è presidente dell’associazione “La casa di cartone”), postfazione di Paolo Pezzana (Genova 1975), editore Zero91, Milano 2013, Collana Lsm, Letture su misura (bella cover di Valentina Photos), pp. 158, € 10.
9 racconti che affrontano la tematica usando ognuno la sua cifra letteraria: surreale (Bomoll), storia di vita (“Ettore”, Franco Limardi, Roma), noir (“Black Blues”, Luca Palumbo), western (“Sun City”, Eva Clesis, Bari 1980), fantascienza (Catani, Lecce 1940), cronaca (“La barba di Harry Smith”, Paolo Melissi), favola (“Logobow”, Igiaba Scego), ironia (“L’importanza di chiamarsi e basta”, Carlo Sperduti, 1984), mainstream (“La superficie liscia delle cose”, Alessio Dimartino, Roma 1972).
Ogni “corto” ha una sua grazia, illuminato dal pathos, denso di etos. Si avvicina al tema con pudore e discrezione. Narrando con garbo, senza sopraffarlo, ma dandogli respiro e a tratti accenti di lirismo e pietas civica. Quello della Bomoll, che è anche regista, è il racconto che colpisce e conquista di più: un barbone, che una volta dormì in un bidone della spazzatura, si rifugia in un cimitero (per “ripararmi da quel freddo che mi stava ammazzando”, “ero abituato a dormire anche in mezzo alle merde di cane”), si stende in un loculo vuoto con la pinta (direbbe Bukowski) di vodka, quando arrivano i padroni: gli zomby (“Io ai fantasmi non ci ho mai creduto. Non credo al mondo dei vivi figuriamoci a quello dei morti” (…) “il tanfo che emanavano era insopportabile” (…) “Abbiate pietà, sono solo un povero senzatetto. L’unica cosa che mi è rimasta è la vita. Volete togliermi anche quella?”. La morale è in una scoperta sconvolgente: l’aldilà è migliore di questa vita. E se l’aspirante zomby avesse ragione, senza se e senza ma?