“Il cavalluccio di Troia” di Delio De Martino: un romanzo che esplora l’animo umano
SANTA FIZZAROTTI SELVAGGI – Il romanzo di Delio De Martino dal titolo “Il cavalluccio di Troia”, con prefazione di Carmen Morenilla Talens edito da La Bussola (Roma), è una lezione di vita perché, in realtà, l’autore ci comunica quel mondo interiore che appartiene agli esseri umani sin dagli inizi dei tempi.
Delio De Martino unisce in un unicum storia, miti e leggende, usando la metafora e il simbolo per svelare il nostro più arcaico sentire. Egli ci dimostra che quelli che eravamo in epoche remote ancora siamo, ma lo fa tra il serio e il giocoso, trovando il futuro nella memoria, consapevole che nel cuore il tempo non esiste nella oscura dimensione umana.
Ed è così che il presente appare veramente come il risultato di tutta una serie di azioni del nostro passato che si fa presente. D’altra parte, è sufficiente osservare cosa accade nel mondo contemporaneo.
Ma che cosa rappresenta davvero “Il cavalluccio di Troia”? Si legge che il "cavalluccio di Troia" è il giocattolo che Odisseo donò ad Alessandro, arrivato da poco a Troia, ormai quindicenne. Uno simile, ma quando aveva quattro o cinque anni, gliel’aveva già regalato il nonno in occasione delle Lenee, il regalo più bello mai ricevuto. L’aveva chiamato Pegaso.
Già, ma dal mio punto di vista il “cavalluccio” è quel giocattolo transizionale che ci lega alla realtà della natura umana come tale, alle nostre origini. Il “giocattolo” con il quale possiamo vedere il nostro più profondo essere, sospendendo spazio e tempo, e tollerare quelle parti nascoste con le quali intratteniamo comunque legami.
Quando non ci sono più parole si passa all’atto: la guerra è il risultato del fallimento assoluto del dialogo e del pensiero libero e creativo.
E così, con le nostre mani, si gioca a fare la guerra perché siamo ancora tribali, perché in noi c’è quella parte che sempre intende soggiogare e dominare l’Altro.
Nulla è casuale: i personaggi sono ripresi dai testi omerici, come il meraviglioso Achille, il figlio di Peleo, che nella tenda è capace di piangere il suo Patroclo, con Priamo che chiede umilmente, ma con dignità di re, il corpo di Ettore. E insieme allo splendore di Achille, la luce di Ulisse inventa il gioco che distruggerà i Troiani.
Non mancano gli accenti sensuali: il romanzo è attraversato dall’“eroticità” dell’essere umano, perché siamo tutti figli di Eros, di quel “bambino che scioglie le membra”, figlio di Poros e Penia (Platone). L’autore ci dimostra però che le passioni sono talora non gestibili e non lasciano emergere agapi.
Il libro si legge in modo fluido e leggero al di là di ogni considerazione teorica. Non mancano nemmeno le scene cruente che vediamo quotidianamente sotto i nostri occhi. Questo romanzo ci insegna innanzitutto a far cadere il velo che ci divide da noi stessi e dagli altri: un velo che svela il segreto del nostro essere al mondo (Heidegger).
Frammenti di immagini abbandonate nella memoria, lungo i ricordi di un’infanzia lontana nel tempo ma in noi pulsante… Il romanzo rappresenta il brulichio convulso della vita, degli eventi naturali, della storia dell’uomo. Si tratta di un racconto colmo di misteri e seduzioni, di quelle pulsioni più inconsce che nell’arte in genere trovano i rivoli della sublimazione.
Un ritorno al senso perduto delle cose, alle paludi della nostra esistenza, quasi a ristabilire una filosofia democritea che nella scrittura ritrova una sua ragione. La contaminazione linguistica, che De Martino usa in modo apposito, sottolinea che tutti parliamo la stessa lingua, custode delle logiche segrete dei sentimenti umani, della passione e della ragione.
