Libri, 'I profumi del nardo': la recensione


DELIO DE MARTINO -
Lo Sposo profuma di nardo …. nei veli dell’aurora… (Gagliano, 2025), l’ultima silloge di Santa Fizzarotti Selvaggi, prosegue una ricerca verso la luce già iniziata in volumi come Sulammita. Trilogia della luce (Gagliano, 2022) o La luce della luna. Frammenti dell’anima (Ed. Insieme, 2000).

Come suggerisce il titolo dell’opera in questo caso il cammino procede seguendo un profumo, quello del nardo, il fiore simbolo di San Giuseppe, citato nel Cantico dei cantici e nel Vangelo e che Maria di Betania usò senza risparmio per ungere testa e piedi di Gesù. Il nardo si lega anche alla figura del padre Angelo, ricordata anche nel bel testo di padre Bubbico posto all’inizio del volume. Bubbico cita proprio un’invocazione al Signore legata alla figura paterna e al dolore della sua scomparsa: Signore, / da quel giorno in cui ti riprendesti mio padre / È passato il tempo / ma la ferita / Mi fa male ancora.

Dunque attraverso l’olfatto, in modo più soffuso e sinestetico rispetto al passato, l’autrice percorre un sentiero poetico allo stesso tempo più labirintico e spirituale rispetto al passato ma anche profondamente incarnato nei sensi del corpo che si lega al sangue di quella ferita e del dolore che arriva ad estendersi a una sorta di “foresta del male”.

Di impostazione sinestetica è anche la parte finale del titolo nei veli dell’aurora…, richiamati nel volume da alcuni versi della silloge (Nostra Signora del Carmelo, / Vergine Maria / Madre di Dio / in attesa dell'alba).

Da questo punto di vista la sinestesia della poesia della lirica Suoni di cetra e liuti (Suoni di cetra e liuti / Ho sentito / Graffiare il cuore/ E poi il profumo/ Del deserto nella tenda avita) esplicita che il cammino della poetessa è guidato da un incrocio di sensazioni che si sovrappongono, si mescolano e si confondono senza un’apparente direzione ma sempre alla ricerca del “Signore della luce”. Come le “Idee nuove di fragranza”, ricordate da Francesco De Martino nella Prefazione, fanno parte di quelle “parole di poesia” simili a quelle saffiche e dei presocratici.
La poetessa è dunque alla ricerca di una somma luce divina ma come se fosse in un giardino sensoriale seguendo il “profumo” del nardo e attraverso metafore sensoriali in cui un senso ne evoca un altro diverso. Benché la vista resti un senso importante, come nella produzione precedente, procede quasi ad occhi chiusi in una ipovisione che acuisce altri sensi. Infatti se alcuni versi di quest’opera decantano ad esempio “l’angelo della luce” e i “bagliori di luce”, gli altri sensi emergono potenti guide dell’anima. Ad esempio l’udito, in un abbaglio poetico che si trasforma in un nuovo modo di percepire l’oltre umano, si fa dolore fisico “il suono / Degli universi / Ci ferisce / E attraversa / In silenzio /La pelle dell’anima”. Il tatto e sensazioni aptiche (come quelle del vento) e il calore diventano cosi un nuovo modo di esperire il chiaroscuro dell’anima. Non a caso la prima sezione del libro si intitola “Infuocati d’amore”.

Anche il gusto diventa protagonista di alcuni versi in cui sensazioni ossimoriche aprono la strada a una spiritualità tanto complessa quanto profonda: dolci le nostre labbra/ aspre di veleno / gonfie di perdute / parole di amore.

In questa prospettiva sinestetica e labirintica, reticolare ma senza una chiara direzione l’autrice cerca una via di uscita dal dantesco smarrimento personale e dell’intera umanità. Come è chiarito ad esempio nella poesia Nello smarrimento in una labirintica estasi poetica la poetessa evocando il pane della vita e il gusto del vino che piacque a Noé annuncia di aver percepito “l’estasi breve” della “divina essenza”. Successivamente in Signore mio dichiara di raccogliere le “Parole di poesia / Per illuminare / i miei passi incerti”.

In questa dichiarazione di poetica si rivela il senso stilistico della poetessa, in qualche modo legato al Simposio di Platone e al mito di Eros.

Il procedere per sinestesie risponde alla concezione dell’amore spiegata nel Simposio di Platone (citato nell’introduzione dalla stessa poetessa). Come spiega Platone infatti Amore è nel mito figlio di Penia e Poros, ovvero di mancanza e di espediente. La sinestesia diventa quindi un espediente retorico per la penia dello spirito e del linguaggio umano della ricerca dell’Amore. L’anima infatti per la Fizzarotti è “Fragile di fango” ma allo stesso tempo “oro stellare / Splendente tesoro”

L’artificio poetico dunque rompe le barriere di questa prigionia e proietta la parola nella dimensione.

L’animo della poetessa è dunque come Amore pur riconoscendo l’impossibilità del linguaggio umano di esprimere il sommo amore pur si ingegna per raggiungere l’assoluto.

Il risultato è affidarsi totalmente al divino ed esperire pur in una dimensione semi-onirica il mistero divino incarnato “Nel sogno di ungere / I Tuoi piedi / Di nardo”.

La serie di metafore sensoriali conduce all’epilogo dantesco dove la poetessa chiarisce che il bruciore de “la materia oscura / Incandescente di quell’Amore” l’ha avvicinata al dantesco “amor che move il sole e l’altre stelle”.